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"Prepariamo i ricercatori per farli scappare" - intervista a Carlo Ginzburg

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BOLOGNA — «Non avrei mai pensato — di­ce il professor Carlo Ginzburg, uno dei maggiori storici italiani — di pronunciare la frase "cinquant'anni fa in quest'edificio"». E avvenuto qualche anno fa alla Normale di Pisa, dove l'autore di opere tradotte in tutto il mondo co­me I benandanti, Il formaggio e i vermi, Inda­gini su Piero, tu studente alla fine degli anni Cinquanta per tornare come docente di «storia delle culture europee» nell'ultimo quin­quennio. Ora va in pensione «per raggiunti li­miti di età», dopo un percorso che l'ha porta­to a lavorare negli atenei di Roma, Lecce, Bolo­gna, Los Angeles, dove è stato docente per di­ciotto anni alla UCLA (University of California). Il 19 novembre Ginzburg, classe 1939, figlio della scrittrice Natalia e di Leone, intellettuale antifascista fondatore dell’Einaudi, morto il 5 febbraio 1944 nelle carceri naziste, é invitato al Quirinale per ricevere Il premio Balzan 2010 per la storia moderna.
La pensione e il conferimento di uno del maggiori riconoscimenti internazionali è l'occasione non tanto per un bilancio in pubblico quanto per una riflessione molto personale sullo stato della ricerca e dell'università in Italia. Ginzburg ci riceve nella sua casa grande e luminosa nel centro di Bologna, vicino alla basilica trecentesca di San Martino: sorridente, come al solito senza cravatta ci conduce con passo atletico attraverso quadro o cinque stanze piene di libri, disposti con ordine sugli scaffali ma anche traboccanti dai tavoli o ancora stivati in qualche scatolone («sono vittima di un non recentissimo trasloco», ironizza) fino a uno studio dove c'è una scrivania libera.Il punto di partenza è l'esperienza negli ulti­mi quattro anni a Bruxelles come membro di una commissione esaminatrice dell’European Research Council. L'Erc, secondo l'acronimo inglese, o Cer, Consiglio europeo delle ricer­che, se lo si dice in italiano, è una delle istitu­zioni ancora poco conosciute dai grande pub­blico, ma è la prima organizzazione europea, espressione della Ue, che sostiene progetti di ricerca sulla base dell'eccellenza, I progetti esa­minali riguardano le discipline scientifiche e quelle umanistiche (Ginzburg fa parte della commissione storia e archeologia). I finanzia­menti, come spiega chiaramente il sito web, possono arrivare a cinque milioni di euro per progetto approvato anche se non sono naturalmente a titolo personale e possono essere sca­glionati in un lungo numero di anni; i concor­renti 0011 provengono soltanto dai 27 Paesi membri dell'Unione, ma anche da alcune na­zioni associate, quali gli Stati Uniti e Israele.
«Sono rimasto impressionato dalla serietà del lavoro nell'Erc — dice Ginzburg —, ma per quanto riguarda il nostro Paese sono stato colpito dal fatto che nessuno degli italiani vincitori del concorso lavorasse in un'università italiana e so­prattutto che nessuno avesse indicato un'università italiana come istituzione dove porta­re avanti il progetto». Ginz­burg parla solo della sua esperienza, che tuttavia trova conferma nelle statistiche più generali: se infatti si vedono gli elenchi delle nazionalità dei candidati, gli italiani figurano al secondo posto, poco meno del 12 per cento, dopo la Germania e prima della Francia e della Gran Bretagna. Se inve­ce ci si riferisce al Paese di residenza, scendiamo al quarto posto, dopo Gran Bretagna, Francia, Germania. La situa­zione in realtà è più allarmante di quel che ci dicono i dati dell'Erc, che si riferiscono a un limitatissimo numero di persone.

«Penso — continua Ginzburg a quel che avviene in Francia, dove si parla addirittura di un'invasione italiana. Come hanno documentato Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi nel libro edito da Laterza "I ricercatori non crescono sugli alberi", alla tornata concorsuale 2007 lanciata dal Cnrs, il consiglio delle ricerche francesi, nella se­zione di fisica matematica e astronomia i candidati italiani hanno vinto il 35 per cento dei posti la percentuale sale al settanta per cento se si considera soltanto la fisica teorica. E un fenomeno che ha dell'incredibile. In America osserverebbero; com'è possibile che un Paese spenda tanti soldi per formare degli specialisti e poi, quand'è il momento di utilizzarli, lascia che vadano via? Uno spreco. E, aggiungo, uno scandalo».

Ricercatori preparati, spesso formati nelle università italiane, non hanno la possibilità di lavorare e insegnare In Italia. Com'è possibile questo paradosso? «Devo premettere — osserva Ginzburg — che non considero l’internazionalizzazione un difetto. Al contrario, è un fe­nomeno molto positivo, ma il flusso dovrebbe avere la caratteristica della reciprocità. Molti italiani di valore vanno all'estero, pochi studiosi dall'estero chiedono di venire in Italia».

Come si è arrivati a questa situazione?

«La mia impressione è che in Italia si sia verificato un invec­chiamento del sistema, la cui responsabilità va fatta risalire anzitutto a quei provvedimen­ti ope legis che tra la fine de­gli anni Settanta e gli anni Ottanta hanno ammesso nelle università docenti senza con­corsi in cui fosse valutata la loro capacità. Da lì si è innesca­to un meccanismo a cascata: mediocri che inevitabilmente scelgono persone più medio­cri di loro. Si tratta di una leg­ge ferrea, o se vuole lapalissiana. C’è poi un fenomeno di corruzione, e non penso tan­to alle manette, quanto a quei casi che ogni tanto si leg­gono sui giornali: la ricercatrice che decide di trasferirsi In America perché il suo profes­sore ha preteso di firmare una ricerca cui non aveva par­tecipato. Un fenomeno diffuso soprattutto nell'ambito scientifico, dove sono comuni le ricerche collettive. Nel mio ambito, quello delle discipline umanistiche, spesso capita invece che ricercatori di primissimo ordine non trovino posto per la distorsione che porta i baroni, come si diceva una volta, a scegliere i candidati locali. E’ una situazione intollerabile».

Ginzburg non risponde se gli si chiede dl far nomi né crede che il suo compito sia di indicare terapie. Non per questo la sua analisi risulta meno efficace, soprattutto quando dall'osservazione di una esperienza particolare prende spunto per considerazioni più genera- 11. «Di recente — racconta — sono stato invitato a un convegno di dottorandi. ho ascoltato le relazioni e, alla richiesta di fare un interven­to conclusivo, ho detto: nelle scuole di giornalismo anglosassoni si insegna che un cane che morde un uomo non fa notizia, mentre e ini­zia un uomo che morde un cane. La mia battu­ta era rivolta alla tendenza generale che ho ri­scontrato nei giovani relatori a nascondere gli elementi di novità delle ricerche per evidenziare piuttosto i dati che riconducevano a una norma. Le ricerche contenevano novità, ma c'era scarsa propensione a sottolinearle. Paura del rischio? mi sono chiesto. Forse i nostri stu­denti delle scienze umane hanno una scarsa tendenza a sostenere una tesi (“to make a point'', come si dice in inglese): un'espressio­ne che nel linguaggio accademico italiano ha spesso un'accezione negativa. Il contrario, insomma, di quanto trovai a Princeton quando nel ‘73 fui invitato al Davis Center for Historical Studies diretto dall'inglese Lawrence Stone. Uno stile di discussione estremamente ag­gressivo, ma senza nulla di personale, ricondu­cibile al fair play britannico (ti attacco, eventualmente ti stronco sul piano scientifico ma ti rispetto come persona) e a un grande eserci­zio analitico».

Capacità di analisi e coraggio nel sostenere le proprie tesi che sono estranee al nostro costume culturale. Un limite, secondo Ginzburg, riconducibile a tre elementi della nostra sto­ria «la tradizione cattolica, la tradizione co­munista e ora da ultimo, per sprofondare nel tango, la corruzione berlusconiana. Sono fenomeni ben diversi, e di ben diversa portata e qualità, naturalmente, ma che contribuiscono a rendere la vita difficile alle manifestazioni di dissenso nella società e nell'accademia italiane. Vorrei concludere ricordando quello che era solito dire il mio amico Francesco Orlando, il grande studioso di letteratura morto nel giugno scorso (aveva insegnato prima alla Normale, poi all'università di Pisa). Col suo forte accento siciliano diceva: "Sulla porta di ogni università italiana dovrebbe essere affissa una lastra di marmo nero con una scritta in lettere d'oro: chi non rrrisica non rrrosica”.

Corriere della Sera
giovedì 28 ottobre 2010

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