Grecia, Portogallo, Spagna... Ma la crisi non era finita?

Giovedì 06 Maggio 2010 19:46 aldogiannuli.it
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Segnaliamo questo interessante articolo sugli sviluppi della crisi, alla luce degli avvenimenti di questi giorni in Grecia...

Che la crisi fosse veramente finita è cosa cui non ha creduto nessuno e, prima di tutti, quelli che lo proclamavano. Semplicemente è successo questo: un bel giorno il signor Barack Obama da Honolulu, con un tratto di penna, ha trasferito all’Amministrazione degli Usa, i debiti della banche d’affari americane ormai al crack. E per le borse, i governi, i giornali, le banche ecc. è stato come se una bacchetta magica avesse azzerato i debiti di tutti, facendoli svanire come una nuvoletta. In realtà, Il Presidente ha semplicemente assunto su di sè un impegno di spesa e, poco dopo, ne ha assunti altri (dai rinforzi in Afghanistan alla riforma sanitaria). Prima o poi verranno al pettine, ma per ora andiamo avanti.

E, infatti, l’asta dei bond americani è andata splendidamente: la domanda è stata tripla rispetto all’emissione; inoltre gli indici della produzione industriale Usa sono risaliti e così via.

Bene! Ma non ci vuol molto a capire che questo non  ha riguardato tutti ma i soli Stati Uniti (e di riflesso la Cina che lì ha il principale mercato di sbocco) e che si tratta, più che altro, di una tregua.
E, in effetti, dopo il G20 dell’anno scorso, che dette il via alla marcia trionfale sulla crisi finita, abbiamo avuto il crak dell’Islanda, quello di Dubai ed, ora, la crisi greca con il preludio di quelle di Portogallo e Spagna. D’altro canto, tutti sappiamo che altri paesi sono in sofferenza  più o meno grave (Irlanda, Ungheria, Polonia, paesi baltici, Italia). Vedete un po’ voi se questo significa che stiamo uscendo dalla crisi.
E non possiamo nemmeno dire che “il peggio è passato”, perchè il peggio deve ancora venire.
Sappiamo che si avvicinano scadenze relative ai titoli poliennali (e un nodo critico è il 2012) emessi da diversi stati fra cui Usa, Inghilterra ecc. e non si sa bene da dove usciranno i soldi per farvi fronte. Certo: trattandosi prevalentemente di titoli di diritto pubblico, è sempre possibile pagarli fittiziamente con l’ “emissione di moneta” (ormai virtuale). Ma questo significa prezzi alle stelle e, già adesso, il costo delle commodities (petrolio, oro, zinco, ferro, rame, litio, palladio, cereali, caffè, cacao ecc.) non è che sia basso o tendente al meno. Saremmo in piena tempesta, di fronte alla “rivolta delle cose”.
Certo, una soluzione del genere avrebbe l’effetto del deprezzamento delle monete occidentali, con l’effetto di svalutare di colpo il  debito di queste monete verso Cina, Giappone e paesi islamici. Esattamente come accadde negli anni settanta, quando, nel 1971, la decisione di Nixon di abolire la parità fissa di 35 dollari per un’oncia di oro, portò ad una parità oro-dollaro di un’oncia ad 850 dollari nel 1979. Morale: il Giappone, che era all’epoca il maggior creditore degli Usa, vide svalutare del 25% il valore dei suoi crediti. Possiamo anche ripetere  l’esperimento, ma la cosa avrebbe effetti assai poco prevedibili, ove si consideri che, questa volta, il buco è più grosso, i creditori sono di più ed incomparabilmente più forti, il mondo non è più bipolare e, per di più, si profila anche una crisi di tipo malthusiano sul fronte dell’approvvigionamento alimentare.
Dunque, non è difficile immaginare che ognuno si stia preparando ad arrivare alla scadenza con il miglior rapporto di forze, così da scaricare su qualche vicino il maggior  costo possibile.
E veniamo alla crisi greca. Che i bilanci di Stato di Atene non fossero proprio in ordine (diciamo così) era cosa di cui tutti avevano fondato sospetto, ma le agenzie di rating continuavano ad assegnare un elevato tasso di solvibilità ai titoli di Stato ellenici. Peraltro, si trattava di un  paese dell’euro e quindi, era normale far conto sul paracadute europeo. Solo che l’allegra finanza non era una esclusiva greca: anche Spagna, Portogallo e Italia (i Pigs, secondo il simpatico acronimo coniato per l’occasione) davano segno di un elevato tasso di “creatività” (per usare il lessico tremontiano). Poi ci si è aggiunta anche l’Irlanda ed i Pigs sono diventati i Piigs, anche se i giornali italiani continuano a scrivere l’acronimo con una sola I riferita all’Irlanda e facendo scomparire l’Italia.
La cosa è andata avanti per un bel po’ perchè faceva comodo a tutti: non era il caso di spezzare l’incanto dell’euforia economica prima del 2008, poi Spagna e Irlanda erano i fiori all’occhiello che dimostravano come senza industria e con poche tasse si potevano avere indici di sviluppo spettacolari ecc. Anche alla Bce, che oggi sembra Alice nel paese delle meraviglie, conveniva non indagare troppo sulla “finanza creativa”: come dice un vecchio proverbio: “se una cosa puzza non metterci il naso”.
Dopo, l’arrivo della tempesta bancaria Usa consigliava di non aprire troppi fronti insieme e la cosa è andata avanti per un altro po’. Ora i nodi vengono al pettine.
I giornali scrivono che “la speculazione” si è abbattuta su Atene, come se si trattasse di un evento atmosferico: cari amici, se c’è speculazione vuol dire che ci sono speculatori, vi dispiacerebbe dirci chi sono e cosa vogliono? E’ un caso che le agenzie di rating (tutte americane) che, sino a ieri davano punteggi altissimi ai Pigs, ora, declassano i titoli greci, poi portoghesi, poi spagnoli nel giro di tre giorni?
Ed, allora, proviamo a leggere i fatti attraverso questa lente: la “speculazione” (in gran parte targata Wall Street) sta conducendo una vera e propria operazione di guerra monetaria contro l’Europa. Infatti, se la Bce e i paesi forti d’Europa vanno al salvataggio di Atene, poi dovranno farlo a ruota per Lisbona, Madrid, Dublino e... Roma. E se si aggiungesse un crollo di Lituania ed Estonia, nei guai finirebbe anche la Svezia. L’Unione europea e la sua moneta sono forti e possono fare fronte a questa valanga, però questo significherebbe svuotare la cassaforte dei paesi ricchi (Germania in primo luogo, ma anche Olanda, Danimarca e probabilmente Francia) ed arrivare alla scadenza del 2012 con il fiato cortissimo. D’altra parte, l’idea che i paesi deboli possano restituire gli aiuti, almeno in parte, a termine relativamente breve è cosa assai improbabile, a meno di vendere una parte dei propri cittadini al mercato degli schiavi o di sopprimere fisicamente tutti i pensionati. Misure scarsamente praticabili ed auspicabili, come si vede.
Dunque, gli aiuti prevedono sin d’ora che una parte sarà a  fondo perduto o comunque recuperabile in tempi lunghi ed incerti. E questo significa la fine del sogno di un Euro moneta forte e stabile, tendenzialmente concorrente del dollaro, con tutte le ricadute che si possono immaginare sull’economia reale.
Alternativa a questa strada: bastonare il cane che affoga. E cioè niente aiuti e sbattere fuori dall’Euro chi non ha in conti in regola. Il che significa mandare in default una serie di paesi europei. Morale: disintegrare l’Unione Europea. Al massimo sopravviverebbe un nucleo duro centrale (Germania, Danimarca, Olanda, Lussemburgo e Francia) che comunque resterebbe alle prese con tutti i problemi di questo strano ircocervo che è l’Unione Europea: moneta senza stato, costruzione giuridica ibrida senza anima politica e senza identità culturale. E questo nella migliore delle ipotesi.
Intanto, due scadenze ci diranno subito da dove va il vento: il 6 si vota in Inghilterra e se i conservatori, da sempre nemici dell’Euro, hanno la maggioranza assoluta dei seggi, questo significa una prima disfatta della Ue.
Il 9 vota un bel pezzo di elettorato tedesco e potrebbe trattarsi di una disfatta per il governo della Merkel che alla ricerca dei consensi perduti, potrebbe anche andare in una direzione diversa dalle precedenti due: la Germania potrebbe pensare seriamente di uscire dall’Euro e tornare al Marco, e questo avrebbe effetti politici ed economici incalcolabili.
Su entrambi i risultati peserà non poco il “vento di Atene”.

da: www.aldogiannuli.it, 6 maggio '10

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Ultimo aggiornamento Domenica 09 Maggio 2010 22:09